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È stato giusto punire Alex Cotoia?


Una vita comune, uno studente esemplare presso la facoltà di Scienze delle comunicazioni; due figli, una madre e un padre: una famiglia consueta, ordinaria.


È il 3 aprile del 2020. Ci troviamo in una casa di Collegno, in provincia di Torino. Una casa apparentemente normale, tranquilla e conforme a tutte le altre che la affiancano. Eppure quel 3 aprile non era la prima volta che Giuseppe Pompa inveiva impetuosamente contro la moglie Maria Cotoia. Quel venerdì, però, in quella casa abituale cambiò qualcosa per quella famiglia abituale. I vissuti di terrore di Alex Pompa Cotoia ( che nell'ormai passato 2023 ha cambiato il suo cognome all’anagrafe, assumendo quello della madre) e di suo fratello Loris trovano fine; quei trascorsi di violenza, di repressione e terrore.


È difficile immaginarsi un padre che usa violenza fisica e psicologica nei confronti dei figli, e soprattutto della moglie; che vieta la libertà con bramosia e cupidigia, risucchiando con orrore ogni forma di indipendenza e assumendo comportamenti ossessivi e di totale possesso nei confronti della compagna. Giuseppe Pompa possedeva e voleva sempre di più impossessarsi della vita di sua moglie, esibendo gesti rabbiosi e iracondi. Quel 3 aprile Alex Cotoia pose fine alle proprie sofferenze, a quelle della madre, di suo fratello e dell’intera famiglia schiacciata sotto il peso opprimente del padre. Difese la mamma da uno dei tanti attacchi rabbiosi del genitore aggressivo, assassinandolo con 34 coltellate, ognuna palesemente frutto della rabbia repressa che il ragazzo, all’epoca di soli 19 anni, covava e nascondeva nel suo cuore. Successivamente, molto probabilmente sconvolto, il ragazzo chiamò i carabinieri, confessando quel gesto “eroico” che era sfociato in reato. Alex venne così condannato dalla procura a una reclusione di 14 anni, finché non venne assolto dalla Corte di Assise di Torino. In sua difesa accorsero la mamma e il fratello che si batterono per lui. Citando testuali parole della madre- Non è un assassino. A questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l’ennesima donna uccisa.- dichiarò rievocando il tema della violenza sulle donne e dei femminicidi, a quanto pare sempre presente nella società odierna.


Questo enfatico spunto di riflessione ci costringe ad ascoltare con attenzione queste parole, dettate dall'amore di una madre per il proprio figlio, ma anche dalla vittima di un terribile aguzzino che dormiva nel suo letto, mangiava ciò che cucinava e viveva nella sua stessa casa. Era costretta a vivere con il suo stesso carceriere, così come i figli che vivevano un rapporto tumultuoso e innaturale col padre.


I giudici hanno cercato di tenere conto di questi fattori, ma per quanto riguarda l’ambito giudiziario le attenuanti (tra le quali, appunto, la condizione di semi-infermità mentale causata dalla pressione psico-fisica inflittagli dal padre e la legittima difesa per proteggere la madre) non possono prevalere rispetto all’aggravante del vincolo di parentela. È stata una battaglia dura quella dell’avvocato Strata che ha difeso l’imputato, facendo ascoltare lunghe ore di registrazioni in cui si sentivano le urla del padre; urla brutali e frustrate. Ad oggi la condanna stabilita per Alex Cotoia è di 6 anni e due mesi, come stabilito dal lungo processo penale in cui si è assistito anche alla comparsa di Michele Pompa, fratello di Giuseppe Pompa, che si è costituito come parte civile e ha ottenuto un non esimio risarcimento.


Ci si interroga su questo verdetto finale: È stato giusto non assolvere Alex per legittima difesa, come all’inizio la Corte di Torino aveva pensato? È stato giusto sanzionare un ragazzo per essersi ribellato al padre, per aver voluto troppo bene alla madre, per essersi opposto alla cintura e alle mani sul collo? È stato giusto punire Alex Cotoia?

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