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Una commissione per poi non tornare più a Casa: la storia di Yara Gambirasio

Aggiornamento: 2 apr



Tra i casi che hanno destato maggior scalpore in tutta la storia italiana, vi è quello di Yara Gambirasio, una ragazzina di tredici anni destinata a interrompere brutalmente la sua vita quella sera del 26 novembre 2010.


Ma andiamo con ordine: Yara è nata il 21 maggio 1997 a Brembate di Sopra, un paesino di 5.000 abitanti, in provincia di Bergamo. Figlia di Maura Panarese e Fulvio Gambirasio, Yara è una ragazza solare col sogno di viaggiare il mondo e diventare una ginnasta. La giovane frequentava la scuola media Maria Regina, a Bergamo, e tra le sue più fidate conoscenze, vi era la sorella maggiore, Keba.


La sua era una vita del tutto ordinaria, scandita dalla scuola e dagli allenamenti di ginnastica ritmica, che si tenevano ogni settimana il lunedì e il mercoledì nel polisportivo, in via Locatelli, dalle 15.30 alle 18.00. Quest’ultimo è un dettaglio davvero molto importante per quella che si definirà essere la sua tragedia.


Il 25 novembre 2010 Yara viene a conoscenza del malfunzionamento dello stereo usato a ginnastica e le due sorelle si offrono volontarie di prestare il proprio. Così, alle 17.30 del giorno dopo, il 26 novembre 2010, Yara esce per una commissione non prevista, che pertanto sarebbe stata tranquillamente potuta essere affidata alla sorella Keba.


È una giornata fredda, quindi Yara promette alla madre di far ritorno per le 19.30. La ragazza si trattiene in palestra per circa un’ora. Compiuta la commissione, Yara esce dalla porta principale della palestra e incrocia il padre di una sua amica di ginnastica. Sarà l’ultima persona ad averla vista prima della sua scomparsa. È dalle 18.30 circa, infatti, che si perdono le tracce della ragazza. La madre Maura è davvero molto preoccupata per cui decide di recarsi di persona in palestra, a controllare la presenza della figlia. Ma di Yara nessuna traccia. Inoltre, alle 19.11 il suo cellulare, secondo alcuni successivi controlli, risulterà definitivamente spento, con ultimo aggancio alla cella telefonica di Malpenso.


Ovviamente, le preoccupazioni col passare del tempo crescono e, dopo tre ore, il padre di Yara sporgerà denuncia ai carabinieri. Da quel momento iniziano le ricerche da parte degli inquirenti e il caso è affidato alla P.M Letizia Ruggeri. Intanto, però, mamma Maura non demorde e manda un sms alla figlia in cui le comunicava di averla iscritta al liceo che tanto voleva frequentare (il liceo scientifico Lussana).


Vengono aperte, nel corso delle ricerche, varie piste, tra cui allontanamento, rapimento e addirittura si ipotizza che si sarebbe potuto trattare di un atto di ripicca per un dispetto nei confronti del padre di Yara che lavorava nel campo edile. Tuttavia, così come vengono aperte, le piste ipotizzate sono chiuse e intanto continuano le ricerche anche con l’ausilio di cani molecolari.


Ecco che sul mirino degli investigatori arrivano una serie di segnalazioni che fanno pensare ad una conclusione del caso ma non si rivelano altro che semplici sbagli. È il caso di Mohamed Fikri, un marocchino di 22 anni, lavoratore nel cantiere di Mapello, arrestato per l’omicidio di Yara sulla base dell’intercettazione telefonica di una frase sconvolgente:” Allah, perdonami, non l’ho uccisa io”.

L’uomo, tuttavia, durante l’arresto si mostra tranquillo: verrà scagionato dalle accuse poco dopo, vi era stato un errore da parte degli interpreti.


La svolta nella risoluzione di questo complessissimo caso di cronaca nera si ha il 26 febbraio 2011, a tre mesi precisi dalla scomparsa di Yara, grazie a Ilario Scotti. L’uomo, appassionato di aeromodellismo, si trovava nel campo di Chignolo di Isola (a 9 chilometri da Brembate) intento a testare il proprio modellino, quando, tra le alte sterpaglie, notava “un mucchio di stracci”. Era il cadavere di Yara. Avvertita la polizia, l’uomo fino all’arrivo delle forze dell’ordine è fissato intensamente da un ignoto che si trovava a poca distanza da lui, la cui identità non è stata ancora rilevata. Poco dopo, sul posto arriva il padre di Yara, che, tra le lacrime, scopre quella che è una durissima verità che nessun genitore vorrebbe mai trovarsi davanti agli occhi: quel cadavere, lì per terra, appartiene a sua figlia.


Il corpo è ritrovato supino, con la testa relegata verso sinistra e le braccia verso l’altro, sopra la testa. Sul corpo sono visibilmente constatabili alcune ferite, ma l’autopsia ne rileva un quadro più preciso: ferite sotto la mandibola destra, lesioni al collo e ai polsi. La ragazza presentava delle contusioni alla testa, causa di una perdita di sensi e spiegazioni di un’assenza di difesa da parte della giovane. Tuttavia, nessuna di queste ferite era da definirsi mortale. Infatti, il decesso di Yara è il risultato di un insieme di fattori, tra cui ferite, stress, bassa temperatura e molto probabilmente è avvenuto alle 22.00 del giorno stesso.


Finalmente il corpo di Yara era stato trovato; ora, però, bisognava fare chiarezza sul carnefice che ha procurato alla famiglia Gambirasio un tale dolore. Per fortuna, sulla scena del crimine, tra gli altri oggetti rinvenuti (pezzi di plastica, cellofan, uno slip maschile), si trovava un asciugamano sporco di sangue. Quest’ultimo, una volta analizzato, ha permesso l’individuazione di uno dei tre profili genetici rinvenuti. I due maschili e quello femminile vengono inseriti nella banca dati, ma non ottengono alcun riscontro.


Le ricerche proseguono e un altro momento chiave nella svolta del caso, stavolta in merito al colpevole, si verifica nel maggio del 2011, quando il R.I.S. decide di analizzare del nuovo materiale genetico. Il campione in questione è prelevato dagli slip di Yara, una zona così delicata quanto importante. Per cui, da quel momento, le ricerche si concentreranno solo su di esso e sulla volontà di riuscire a trovare il corrispondente di quel materiale genetico, denominato “Ignoto 1”.


È a questo punto, che si adotta un procedimento causa di diverse polemiche in merito alla sua attendibilità e per dipiù’ mai usato in Italia… un’impresa titanica: si vuole confrontare quel campione di DNA con quello di più uomini possibili, sperando di trovare un riscontro decisivo. Nel luglio del 2011, in particolare modo, si analizzano gli uomini presenti quella sera in una discoteca, denominata Sabbie Mobili, non lontana dal luogo dove è stato ritrovato il cadavere della povera Yara. I risultati sono sorprendenti: un uomo, Damiano Guerinoni, mostra un DNA compatibile con quello di “Ignoto 1”. Tuttavia, subito giunge un problema: l’uomo era un tesserato della discoteca ma quella sera si trovava in Perù… com’era allora possibile? Poteva trattarsi di un suo parente? Seguendo questa traccia, tutta la famiglia di Damiano viene passata a setaccio fino a quando non si verifica un’altra corrispondenza: stavolta con Pierpaolo Guerinoni. Il caso, però, non risulta ancora risolto: il DNA non mente, Ignoto 1 è fratello di Pierpaolo, degli altri suoi due fratelli e figlio del padre di Pierpaolo. Ma chi tenere in considerazione se i figli legittimi dell’uomo erano stati tutti esaminati?


Le ricerche si concentrano allora su tutte le donne che aveva avuto Pierpaolo, volte all’individuazione di un possibile figlio illegittimo. Le indagini giungono a Massimo Giuseppe Bossetti, figlio maggiore di Ester Arzuffi; il DNA della donna corrisponde al 50% con quello di “Ignoto 1”. Non vi sono più dubbi: il 15 giugno 2014 la polizia ferma Bossetti e con la scusa di un alcol test conferma che il suo DNA corrisponde a quello di “Ignoto 1” per il 99,999927%. Il colpevole era stato trovato. Prima però di rispondere alla domanda “chi è il killer di Yara?”, dobbiamo affrontare uno degli aspetti d’ombra del caso di cui forse non si è mai fatta abbastanza luce. Il campione denominato 31GL9 e trovato sugli slip di Yara oltre alla traccia analizzata di “Ignoto 1”, conteneva il DNA mitocondriale di un altro ignoto, “Ignoto 2”, che non verrà mai analizzato… la vera domanda a questo punto è: perché? Questo quesito è destinato ad aleggiare nel vuoto per sempre. L’unica differenza doverosa da fare è dire che il DNA di Ignoto 2, al contrario di quello di Ignoto 1, è mitocondriale; a differenza del DNA nucleico, infatti, che identifica una persona, quello mitocondriale è ereditato di madre in figlio. Alcuni, però, comunque sostengono che arrivati a quel punto della storia sia stato un peccato non indagare anche su quest’altra traccia.


Ritornando al caso, al processo di primo grado il capo dei RIS di Parma Giampietro Lago spiegò che “le probabilità di sbagliare sul fatto che quel DNA mescolato a quello di Yara, sia di Ignoto 1 sono di uno su 20 miliardi”. Si era finalmente giunti ad un punto di chiusura: Massimo Giuseppe Bossetti doveva essere l’assassino di Yara. Ma cosa sappiamo su di lui?


L’uomo è nato il 28/10/1970 a Clusone, in provincia di Bergamo, è figlio di Ester Arzuffi e legalmente di Giovanni Bossetti, ma chi lo sa? Il caso rivela con certezza che il padre sia un altro (Giuseppe Guerinoni), nonostante Ester neghi. L’uomo ha una sorella gemella che come lui dovrebbe essere figlia illegittima del Guerinoni.


La vita dell’uomo scorre su quattro filoni diversi che talvolta si incontrano, talvolta procedono separati e talvolta si smentiscono a vicenda. Si parla delle cosiddette quattro vite di Bossetti: la prima quella di facciata, poi vi era quella che raccontava ai suoi colleghi, quella segreta e ancora quella che forse nemmeno lui sapeva di avere relativa alle dinamiche familiari.


Infatti, all’apparenza, Massimo Bossetti è un uomo silenzioso, pacato, sposato con Maria Comi e padre esemplare di tre bambini. Lavora nel campo edile come muratore pur avendo sempre sognato di diventare un imprenditore edilizio. La vita, però, che raccontava ai suoi colleghi era completamente lontana dalla realtà e si basava su quello che per gli investigatori è un indicatore di uno dei tratti tipici del killer “la menzogna”. Era un bugiardo patologico. L’uomo si era inventato nientemeno che due tumori al cervello, un’operazione al naso, l’acquisto di un capannone e così tante altre bugie da guadagnarsi il soprannome di “favola” da parte dei suoi colleghi. È’ questo il motivo per cui risulta difficile prendere in considerazione le sue parole di innocenza “la lama del coltello, sarà anche stata la mia, ma sicuramente non era la mia mano ad impugnarlo” pronuncia l’uomo facendo riferimento ad un complotto.


Passiamo, poi, all’analisi della sua vita segreta, anche questa, frutto di molte polemiche. Sui suoi apparecchi elettronici sono state trovate ricerche e materiale pornografico tutto accomunato dalla presenza di ragazze dall’aspetto molto giovane, seppur maggiorenni. È quindi da sottolineare il motivo della polemica: perché quella che è la ricerca di materiale legale su internet deve diventare la prova schiacciante in un processo di omicidio? L’uomo, comunque, a quanto pare, nutriva una fantasia sessuale repressa di carattere pedofilo soddisfatta di questo materiale in rete.


L’ultimo filone di vita, infine, di Giuseppe Bossetti è quello relativo all’asset familiare, una verità che par esser stata nascosta per più di quarant’anni a lui e a quello che credeva esser suo padre, dalla mamma Ester. Tuttavia, se dovesse esserne stato già a conoscenza, questa verità che faceva della propria vita così come la si era sempre vissuta una menzogna, potrebbe esser causa di rabbia e rancore, covate nell’animo di Bossetti, uomo del tutto non ordinario né pacato.


Ormai, con la visione chiara sul caso, il 16 giugno 2014 Massimo Giuseppe Bossetti viene arrestato nel cantiere di Seriate, presso il quale lavorava. La prima reazione dell’uomo è quella di sollievo: si mostrava convinto che presto si sarebbero resi conto dell’errore e che sarebbe tornato a casa. Ma questo da allora non è mai più successo. Bossetti dopo una condanna di primo grado il 1° luglio 2016, è condannato in via definitiva il 12 ottobre 2018.alla pena dell’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio


La prova regina della condanna è sicuramente la traccia di DNA. Anche qui, però, si è verificato un problema che ha fatto un po’ storcere il naso: alla difesa, come è suo diritto, è stata negata la controanalisi del DNA in quanto, secondo il genetista, il DNA è troppo piccolo per essere sottoposto ad altri esami. Tuttavia, alla difesa è stata proposta la visione dei documenti a loro volta frutto dell’analisi irrepetibile effettuata sul campione.


Tra le altre prove, ce ne sono almeno altre quattro di carattere circostanziale: ricerche di materiale porno, ritrovamento sul e nei pressi del cadavere di sferette metalliche e calce ricollegabili al lavoro di Bossetti, il video di quello che potrebbe esser il suo presunto furgone bianco che sicuramente almeno una volta quel pomeriggio passò davanti alla palestra di Yara e infine le celle telefoniche alle quali il cellulare di Bossetti non si connetterà mai poiché spento, con ultimo aggancio alla cella di Malpenso (che il cellulare di Yara aggancerà un’ora dopo).

La condanna è stata fatta, ma molti ancora si chiedono: è un numero sospetto di prove circostanziali, sì, ma sufficiente a condannare una persona all’ergastolo?


Ai lettori l’ardua sentenza

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