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“È stata la mano di Dio”: la consacrazione di Paolo Sorrentino

Aggiornamento: 24 set 2024

di Salvatore Sellitti



Non ha certo bisogno di presentazioni Paolo Sorrentino, regista napoletano pluripremiato dalla critica internazionale e riconosciuto in tutto il mondo come massimo esponente del cinema italiano contemporaneo. Con alle spalle un Oscar, un Golden Globe, un BAFTA e diversi tra Nastri d’argento, Globi d’oro e Ciak d’oro, il regista classe ’70 si prepara a recarsi dopo otto anni al Dolby Theatre di Los Angeles, dove il prossimo 28 marzo si terrà la cerimonia di premiazione degli Oscar.


A concorrere con altri quattro film per la categoria “Miglior film internazionale” proprio l’ultima pellicola di Sorrentino “È stata la mano di Dio”, presentata alla 78ª Mostra del cinema di Venezia e distribuita poi dapprima nelle sale e successivamente sul Netflix. Il successo riscosso dal film al suo esordio fa ben sperare: nonostante le forti limitazioni della capienza delle sale cinematografiche e il breve periodo di tempo in distribuzione limitata, la pellicola risulta essere la più vista in Italia nel 2021 con un incasso di circa 7 milioni di euro.


Definito da molti il capolavoro assoluto di Sorrentino, il film è di fatto un’autobiografia del regista ambientata nella Napoli degli anni ottanta, animata dall’arrivo in città di uno dei calciatori più forti di sempre, Diego Armando Maradona, che fa da cornice all’intera vicenda ed al quale allude fortemente il titolo del film. La pellicola risulta divisa in due blocchi narrativi: spartiacque è la morte dei genitori di Fabietto Schisa, alter ego di Sorrentino, che a partire da quel momento esce dall’ovattato ed ormai disintegrato mondo familiare e si proietta verso il mondo adulto, con il presentarsi, tra le altre cose, delle prime pulsioni sessuali nei confronti della zia Patrizia e la successiva perdita della verginità con la baronessa Focale.


Un’esperienza, quella disillusoria di Fabietto, che ripercorre in realtà la più vasta esperienza umana: l’essere umano, per rifuggire dalla realtà misera e mediocre, è obbligato a crearsi delle illusioni destinate col tempo a sgretolarsi e a rivelare l’amara verità. La cruda riflessione sulla realtà è la cifra caratteristica del regista partenopeo il quale ha condotto nella sua ultraventennale carriera, attraverso le sue sceneggiature, dei veri e propri studi sulla natura umana, giungendo alla conclusione che essa sia destinata a rimanere deludente ed inconsistente. Una prospettiva, quella della mediocrità e della sofferenza, che veste molto stretta al regista, il quale individua nel fine ultimo della vita qualcosa di più, una spinta superiore, la “mano di Dio”, quella che il Sommo Poeta definisce “l’amor che move il sole e l’altre stelle”: l’amore che, come un deus ex machina, piomba nella realtà e dunque anche nel cinema sorrentiniano, specchio quanto mai minuzioso dell’uomo e del mondo.


Esso gioca un ruolo cruciale ne “Le conseguenze dell’amore” dove l’amore stesso veste i panni di Sofia, barista dell’albergo svizzero in cui vive da anni uno sconsolato Titta De Girolamo, per il quale il sentimento verso Sofia e poi verso il suo migliore amico, diventato operaio dell’ENEL, rappresenta l’ultimo pensiero prima di morire; ancora ne “Il divo” un amore, seppur malato, verso la patria porta il senatore Giulio Andreotti, interpretato dall’inarrivabile Toni Servillo, a “perpetuare il male per avere il bene”.


L’amore eleva e innalza l’uomo, lo fa sempre, anche nel premio Oscar “La grande bellezza”. Jep Gambardella, protagonista del lungometraggio, racconta di essere “sprofondato nel vortice della mondanità” non appena giunto a Roma, all’età di ventisei anni, forte del successo del suo primo ed unico libro “L’apparato umano”. Dopo quarant’anni trascorsi da re dei mondani, a seguito di lutti e ricordi, riesce ad uscire dal vortice che lo aveva inghiottito e lo fa ascoltando le parole de La Santa, la suora più vecchia del mondo, che da anni vive nutrendosi di sole radici. Jep si rende conto che l’unico modo per vivere a lungo (nella memoria dei posteri grazie alle sue opere) è quello di fare affidamento sulle radici, quello di tornare all’origine, nella sua città, ritrovando così l’ispirazione che la città eterna gli aveva strappato via.


Impossibile non notare un’autocritica a se stesso in “È stata la mano di Dio”, dove Fabietto, in quella che è probabilmente la scena cult del film, ha una discussione con il regista Antonio Capuano, al quale rivela l’intenzione di volersi trasferire a Roma a fare cinema; la risposta del regista è dura: indicando il golfo di Napoli, rimprovera il giovane Fabio (non più Fabietto) dicendogli che dev’essere la sua città ad ispirarlo: “ca' te ne vai a fa' a sta Roma? Nun te dice niente sta città? Guarda quante cose tene da ricere sta città!”.


Come Jep, anche Paolo Sorrentino ha commesso l’errore di allontanarsi, con la narrazione, da Napoli. Ora, dopo un film quanto mai introspettivo ed ambientato nella sua Napoli, è tornato alle sue radici seguendo il consiglio di Capuano ed è pronto per il suo secondo premio Oscar, quello della consacrazione, quello che desidera più di ogni altra cosa in quanto diretta conseguenza della più bella dichiarazione d’amore alla sua città. Un Oscar che più che a tutti, apparterrà alla città di Napoli e a suo figlio, Diego Armando Maradona.

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