Zerocalcare: i fumetti di chi ha perso
- Il Napoletano Espanso
- 15 lug 2022
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 3 gen 2023
di Vincenzo Passamano

Se oggi viene citato il nome di Zerocalcare, viene spontaneo pensare alla serie animata prodotta da Netflix Strappare lungo i bordi, per via del suo enorme successo. Un successo che ha permesso a molte persone, anche quelle esterne al mondo del fumetto italiano, di avvicinarsi per la prima volta alle opere di Michele Rech, in arte appunto Zerocalcare.
Zero di certo non è il tipo di artista a cui mancano le cose da dire, e nei suoi vari anni di attività, ha pubblicato oltre una decina di Graphic Novel, oltre la continua attività sul suo blog che manda avanti da novembre 2011, sempre mantenendo il suo stile narrativo intatto.
Ma esattamente, perché ci piace Zerocalcare? Come mai per molti di noi è così facile empatizzare con le sue disavventure, nonostante spesso vengano iperbolizzate e rese a tratti surreali?
A questo quesito risponde Zero stesso, spiegando che solo chi ha gli “impicci” come lui, può apprezzare i suoi lavori.
Nel parlato classico, un impiccio non è altro che un piccolo problema, un semplice disagio che può capitare a chiunque. Ed è proprio questo disagio che trasforma i racconti di Zero in uno specchio in cui riflettersi per migliaia di persone.
L’autore nelle sue opere è perennemente paranoico, ogni vicenda, da quelle più banali come l’acquisto di una pianta carnivora nel “La profezia dell’armadillo” fino a quelle più amare, come ad esempio la morte di sua nonna, fulcro del libro “Dimentica il mio nome”, ogni singola vignetta è impregnata di quel disagio universale che Zero prova, talmente tanto forte che la sua mente gli dona le sembianze di un armadillo parlante, un polpo gigante e chi più ne ha, più ne metta.
E se questo disagio, come già detto prima, spesso risulta ingigantito fino all’estremo per creare ilarità nel lettore, esso contemporaneamente riesce a mantenere il suo realismo e la sua quotidianità, legandosi a chi da esterno, si ritrova immerso nei pensieri e nelle turbe del caro Michele.
L’impiccio dunque diventa la fotografia di una generazione allo sbaraglio, quella di Michele, disillusa e ormai ridotta allo sbaraglio, ma al contempo è parte integrante della vita di ogni persona, coinvolgendo in egual misura, anche se in modo e contesti diversi, giovani e anziani.
Calcare nei suoi tragicomici deliri, che uniscono la classica vita da periferia romana, mista ad elementi di fantasia e cultura pop, delinea un profilo sociale ben definito, quello del perdente, della persona che ha troppi rimpianti da contare e che ha perso il filo conduttore della sua esistenza, ma che imperterrita continua nella sua vita, andando avanti come può, attaccandosi ai propri ideali come unica scialuppa di salvataggio dalla nave ormai allo sbaraglio che rappresenta il vivere.
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