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Retorica scuola: la spocchia dei migliori

Aggiornamento: 3 gen 2023

di Matteo Celentano



Mentre i dati dell’epidemia ritoccano ogni giorno il record di contagi, sembra che la sola preoccupazione del Governo sia confermare la didattica in presenza. Il Presidente Draghi e il Ministro Bianchi non hanno voluto sentire ragioni, a nulla sono valsi gli appelli di sindaci, governatori, sindacati e presidi: lunedì 10 gennaio tutti a scuola.


Si tratta dell’ennesima decisione irresponsabile riguardante la scuola, ancora una volta vittima delle manovre di palazzo e di una becera propaganda politica. Che la didattica in presenza garantisca un’efficacia maggiore sotto diversi punti di vista è chiaro a tutti, ma sostenere la retorica della scuola in presenza anche quando l’evidenza suggerirebbe il contrario dimostra quanto la decisione sia più una bandierina da sventolare che il risultato di un’analisi critica e accorta.


I ragazzi italiani, specialmente i più piccoli (per intenderci quelli appartenenti alla fascia 5-11) sono i meno vaccinati rispetto ogni categoria, ma, nonostante questo, saranno da lunedì chiamati a tornare alla loro solita routine.

Gli studenti torneranno ad affollare i mezzi di trasporto, si assembreranno nelle piccole aule degli edifici scolastici e finiranno con l’agevolare la diffusione del virus. Magari, per non aver voluto chiudere la scuole oggi, finirà che a chiuderle sarà lo stesso virus, quando la situazione sarà diventata insostenibile.


Viene allora da chiedersi da cosa sia generata tanta resistenza nel Governo. Probabilmente

è l’orgoglio di un Governo che è nato a causa del “fallimento della politica” e che ha la spasmodica necessità di mostrarsi migliore di essa. Nel dettaglio, la necessità di dimostrare di agire più correttamente rispetto quanto fatto dalla criticatissima Ministra Azzolina, di riuscire lì dove lei aveva fallito.


Ai punti, in realtà, il Governo e il Ministero dell’Istruzione si stanno dimostrando

altamente insufficienti. Questo perché, per dare un reale senso alla propria apoliticità, si sarebbero dovute intraprendere riforme strutturali, principalmente relative all’edilizia scolastica e ai mezzi di trasporto, o, per lo meno, interventi mirati sul lungo periodo che il mondo della scuola invoca da ormai due anni: l’areazione nelle aule, le mascherine Ffp2, l’alleggerimento dei protocolli relativi alla quarantena e ai tracciamenti, la soluzione al problema del cibo nelle aule, l’aumento dei personale, i presìdi sanitari, un’imponente campagna vaccinale.


Nulla di tutto ciò. Gli ultimi decreti, ben cinque in un solo mese, hanno avuto come unico risultato una confusione generale che ha raggiunto livelli mai toccati dall’inizio della pandemia. Ad oggi gli istituti hanno difficoltà a recepire e ad applicare le nuove misure imposte e, al contrario, si perdono tra i tracciamenti e le tipologie di quarantene (che tra l’altro, con il decreto del 5 gennaio, finiscono per ledere la privacy circa lo status vaccinale degli studenti) e si vedono sprovvisti dei mezzi necessari a fronteggiare l’impatto violento della quarta ondata.

Gli studenti, invece, forse per la prima volta in tanti mesi, non si sentono sicuri a tornare in classe in queste condizioni.


Questo avviene perché nelle decisioni riguardanti la scuola si deve coinvolgere chi la scuola la vive per davvero, non chi la vede solo dai palazzi romani ed è totalmente avulso dalle dinamiche scolastiche. “Lunedì 10 gennaio si torna a scuola” è l’unica frase pronunciata dal governo in una settimana di proteste generali: non c’è una spiegazione, non c’è un’assunzione di responsabilità. È la spocchia dei migliori, di chi si sente superiore, di chi decide sulla pelle degli altri e non ha neppure il coraggio di metterci la faccia.

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