Gorky: l’arte prima di ogni cosa
- Il Napoletano Espanso
- 25 feb 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 19 lug 2023
di Paolo Calandra

È picassiano, cubista, antico, violento, realista, astratto, metafisico, crudo; eppure, ogni volta, alla fine, non è niente di tutto questo: è Gorky, un uomo che alla propria identità teneva come alla propria madre e non voleva cedere all’assimilazione imposta per integrarsi. È un uomo che visse nel dolore della solitudine, perso nel ritrovare se stesso e la propria terra in quell’America capitalista, grigia e soprattutto spoglia di cultura e tradizioni, un luogo dove ognuno ricreava la propria realtà, mancando del calore che si prova quando ci si sente a casa e, di conseguenza, dell’emozione più forte: l’essere se stessi.
Arshile Gorky nacque infatti il 15 Aprile 1904 in Armenia ma, a causa dello sterminio del suo popolo da parte dell’impero Ottomano, fu costretto, all’età di quindici anni, a intraprendere un lungo viaggio verso l’America.
Ed è stato proprio su un barcone, come quelli di oggi, che da Costantinopoli raggiunse Atene, poi Napoli, prima di emigrare negli Stati Uniti.
Fu in America che egli cambiò nome in Gorky, omaggiando l’attore Maksim Gor'kij, il quale aveva vissuto una vita tanto amara quanto la sua, facendo trasparire dal suo stesso nome la tenebrosa essenza della propria esistenza: Gorky in russo vuol dire amaro.
Perso in quel nuovo mondo, di cui mai fece davvero parte, nel 1919 la madre morì di stenti tra le braccia del figlio quindicenne.
Così, tra ricordo e sofferenza, Gorky passava le giornate a dipingere nel suo studio in Union Square, un luogo vuoto e solitario seppur si trovasse nel centro di Manhattan, illuminato dalla sola luce del fascino della sua personalità brillante.
Era magro scheletrico e povero, ma aveva sempre la forza di dipingere tele, non fermandosi mai. Lavorava infatti giorno e notte ininterrottamente; di tanto in tanto si fermava per bere una bottiglia di vino ed abbandonarsi all'ubriachezza.
Durante le cene e le feste danzava i balli popolari della sua terra natìa, la sua voce sovrastava ogni possibile conversazione nella stanza, noncurante dei presenti che, sensibili alla moda del jazz, non riuscivano proprio a digerire quelle «sceneggiate esotiche», scrive il pittore Stuart Davies.
Gorky non ne poteva più di quell’ambiente triste e insensibile nei confronti di un grande artista. Si consolava con la propria cultura, con la tradizione dei canti e dei costumi che tanto gli ricordavano i tempi piacevoli e tanto sfuggenti passati con la madre, fino a creare imbarazzo, come un narciso molesto, fino a disturbare gli altri graffiandoli nel profondo, come facevano i graffiti sulle sue grandi tele che gridavano di sofferenza, proprio come gente perduta che rifiuta l’amaro destino imposto da una società bastarda.
Nel 1946 un incendio distrusse il suo studio e molti dei suoi lavori. Questo fu il primo di una serie di eventi sfortunati: nello stesso anno si operò di cancro, nel 1948 si fratturò il collo in un incidente d’auto.
Depresso, confessò alla moglie l’intenzione di suicidarsi. Il motivo di tanta delusione e inappetenza nei confronti della vita era quello di non riuscire ad inseguire le proprie fantasie artistiche, o meglio di non poter essere quelle fantasie, quei vividi ricordi che per una vita intera aveva provato a rincorrere senza mai raggiungere.
Non riuscendo a conciliare i due mondi, abbandonato dalla moglie, il 21 luglio 1948, Arshile Gorky si impiccò nel suo studio. Aveva 44 anni.
Gorky è considerato l’ultimo dei grandi surrealisti ed il primo degli espressionisti astratti. La sua opera ebbe un ruolo fondamentale nella scena dell’arte Americana degli anni ‘40. Fu un uomo povero e flebile che antepose sempre l’arte al mangiare e al bere, trovando la forza di esprimere, in un mondo cupo e meschino, la propria sofferenza e la propria sensibilità da artista brillante.
Egli fu, è e sarà per sempre Arshile Gorky.
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