Capurà è morto ‘alifante
- Il Napoletano Espanso
- 29 nov 2024
- Tempo di lettura: 2 min

Nel cuore di Napoli, nel poco conosciuto ma preziosissimo museo zoologico di Napoli, giace un reperto unico al mondo: lo scheletro dell’elefante del Re, un maestoso elefante asiatico il cui destino è intrecciato alla storia napoletana e alla saggezza popolare. Questo animale è stato protagonista di leggende, detti e aneddoti che hanno lasciato un segno indelebile nella cultura partenopea.
Secondo la tradizione, l’elefante fu donato al re di Napoli da un sultano d’Oriente come simbolo di amicizia e per suggellare rapporti commerciali tra Occidente e Oriente. Giunto a Napoli durante la dominazione spagnola, fu accolto nella Reggia di Portici, all’epoca residenza estiva della corte reale, famosa per ospitare uno zoo privato. L’elefante rappresentava un’attrazione esotica e prestigiosa e questa fu la sua condanna: affidato a un caporale dell’esercito, incaricato di provvedere al suo mantenimento, l’elefante diventò involontariamente il centro di una vicenda di corruzione. Il caporale, infatti, tratteneva parte dei fondi destinati al nutrimento dell’animale e, allo stesso tempo, chiedeva mazzette al popolo per permettere di vederlo. Tuttavia, la sua avidità ebbe conseguenze fatali: l’elefante, denutrito, morì di fame. Da questa storia nacque il detto napoletano “Capurà è morto ‘alifante”, utilizzato per indicare la fine di una situazione favorevole o di un guadagno illecito.
Questo famoso detto napoletano fu menzionato anche da Benedetto Croce in uno dei suoi scritti, evidenziando come questo animale esotico fosse diventato un simbolo tanto della magnificenza della corte borbonica quanto della quotidianità popolare napoletana. Croce, sempre attento ai dettagli della storia e alla cultura locale, utilizzò l’aneddoto dell’elefante per descrivere l’intreccio tra potere, corruzione e ironia che caratterizzava molte vicende dell’epoca.
Questa citazione da parte di Croce non è casuale: l’elefante di Portici, con la sua tragica vicenda, divenne un esempio emblematico delle contraddizioni di un sistema che, pur volendo mostrare grandezza e opulenza, spesso inciampava nella corruzione e nella negligenza.
Croce utilizzò questa vicenda anche per parlare del rapporto tra il popolo e il potere, in una Napoli che, come spesso accadeva, trasformava ogni evento in un racconto ricco di significati simbolici e morali.
L’elefante di Portici, nella visione di Benedetto Croce, non è solo un reperto zoologico, ma un frammento di storia che rivela l’anima stessa della città: la capacità di resistere, ricordare e sorridere, anche davanti alle storture della realtà. Questo legame tra cultura popolare e grandi eventi storici ha reso la vicenda dell’elefante una delle tante piccole storie che, nella loro semplicità, raccontano molto di Napoli e della sua gente.
Dopo la morte dell’animale, la pelle dell’animale venne riutilizzata durante la Seconda guerra mondiale per la produzione di scarpe, mentre le zanne furono rubate. Oggi, dello storico elefante rimane soltanto lo scheletro, che continua a raccontare la sua storia e a incuriosire studiosi e visitatori.
E tu, cosa ne pensi? Dicci la tua!
Komentarze